The Florida Project: La Recensione del film di Sean Baker
La casa di produzione A24, a quanto pare incapace di realizzare film che non si rivelino gioielli o successi al box office, dopo il successo dello scorso anno con Moonlight, arriva agli Oscars 2018 con due film (sarebbero stati forse anche tre se non fosse stato per l’esclusione mediatica di James Franco in seguito ai soliti scandali): l’ottimo Lady Bird e una piccola sorpresa chiamata The Florida Project, che ha fatto incantare gli Stati Uniti e non solo.
Sean Baker, talentuoso regista americano, dopo un film come Tangerine, completamente realizzato con iPhone 5s, dirige il film della sua maturità, seguendo il suo unico stile a metà tra il realistico e il trasognante.
The Florida Project segue uno spaccato di vita americana, tramite gli occhi della piccola Moonee (Brooklynn Kimberly Prince) di sei anni. Moonee e i suoi coetanei Scooty, Jancey e Dicky passano le giornate traendo il meglio da quello che la povertà gli ha tolto, come delle moderne Simpatiche Canaglie, gironzolando tra le case abbandonate, giocando e infastidendo il custode del complesso di case dove vivono, interpretato da un magistrale Willem Dafoe. Moonee vive insieme alla sua giovanissima madre Halley (Bria Vinaite), che per sbarcare il lunario fa un po’ di tutto, da quasi illegale alla semi-prostituzione nella stessa microscopica stanza dove convive con la figlia. Un litigio con la sua migliore amica Ashley (Mela Murder) farà crollare questo castello di carte, questa bolla idilliaca senza tempo e maturità in cui vivevano.
The Florida Project infatti è un posto magico, fatto di disillusioni, di quello che l’America voleva diventare da grande e nel quale ha fallito miseramente. Florida Project era, per chi non lo sapesse, il nome in codice dell’utopico complesso di residenze voluto dalla Disney intorno al famoso parco divertimenti ad Orlando, in Florida, per la comunità del domani. Il progetto però, ad oggi si è trasformato in quello che noi chiamiamo case popolari e in America appunto, “projects”.
Ma a Moonee, come un qualsiasi bambino, la povertà e la disperazione non importano. Il suo mondo fatato è al contempo estremamente lucido sulla vita, su come approfittarsi delle situazioni e sull’affetto incondizionato che, nonostante tutto, la madre prova per lei. In una frase, forse significativa di tutto il film dice alla sua amica Jancey, “[…] I love this tree because it’s tipped over and it’s still growing“, letteralmente “[…] amo quest’albero perché è crollato e sta continuando a crescere“. In quell’America dimenticata, in cui il sogno si è ormai infranto, raccogliendo le briciole della vicina e sfarzosa Disney World, si può e si deve continuare a vivere.
Il manager custode di questo complesso di case, Bobby, dal suo monitor osserva questo disastro che sono gli intrecci delle vite dei suoi clienti cercando inutilmente di mettere insieme i cocci delle loro esistenze. In una delle migliori interpretazioni di Dafoe degli ultimi anni, il personaggio di Bobby, come un occhio divino, è impotente di fronte al libero arbitrio e soffre compassionevolmente delle pene di quella che è uno dei rapporti più complessi e puri della vita, una madre con un figlio. Bobby è anche l’America stessa, che paternamente non è più in grado di seguire tutti i suoi figli sparsi nel paesini rurali dove regna la povertà, come appunto Kissimmee, dove è ambientata questa storia.
Sean Baker, anche grazie alla bellissima fotografia di Alexis Zabe realizza un film di un’incredibile naturalezza. La recitazione di Bria Vinaite, alla sua prima opera dopo essere stata “scoperta” su Instagram, ma soprattuto di Brooklynn Kimberly Prince e di tutto l’ensemble dei bambini, supera ogni aspettativa sulla qualità della recitazione riuscendo anche a dare al film un finale più che commovente. Girato nell’arco di un’intera estate, riducendo all’osso la troupe tecnica e in alcuni casi di nascosto dentro Disney World senza autorizzazione alcuna (come Escape From Tomorrow), è riuscito nell’intento di ottenere l’attenzione della critica e del pubblico, dimostrando la maturità di un regista come Sean Baker, di cui sentiremo sicuramente parlare nei prossimi anni.