New York, skateboard e vita di strada: le sottoculture di Kids e Skate Kitchen a confronto
Nel 1995 usciva Kids, racconto lucido e realistico di una gioventù americana scritto da Harmony Korine e diretto da Larry Clarke. Oggi, più di 20 anni dopo, Crystal Moselle cerca di raccontare com’è cambiata la vita di strada a New York. E si accorge che, forse, non è cambiata poi tanto
Metti un pomeriggio in un bar, a New York, agli inizi degli anni Novanta. Un giovanissimo Harmony Korine appena 19enne si aggira con il suo zaino per la città. Uno zaino carico di speranze, come le valigie di cartone che i nostri nonni riempivano per sbarcare nel nuovo mondo. Così Harmony Korine riempiva lo zaino di suoi vecchi film, girati a scuola con i suoi amici su pellicole 16 mm, e scriveva sui VHS il numero di sua nonna: metti caso che trovi qualcuno di famoso, gli lasci il tuo film, lui scopre che gli piace e allora che fa? Ti chiama, ovviamente. Sembra la trama di un film di Chazelle – e raramente le cose vanno così, nella vita vera – ma vuoi che i tempi erano diversi, vuoi che per fare successo devi provarle tutte, vuoi che Harmony Korine ha proprio l’aria di uno che gira per la città coi 16 mm in borsa, fatto sta che uno di quei film finisce nelle mani di Larry Clarke, che guarda i suoi film, se ne innamora e il giorno dopo chiama la nonna di Korine. “Hey, Harmony, mi piace il tuo stile. Ho una storia per te, che ne dici di scrivermela?” Diversi anni dopo, grazie anche a Gus Van Sant, Kids arriva al cinema.
Chiunque abbia visto Kids nel 1995 ne è rimasto letteralmente folgorato, ma anche quelli che – come me – lo hanno visto anni dopo si sono presi i loro tempi per processarlo, digerirlo ed accettarlo. Perché Kids non è il classico “coming of age” e forse non è neanche rivolto davvero ad un pubblico adolescente, ma parla di adolescenti, a New York, nei primi anni Novanta, anni di vita di strada, skateboard al parco, sesso libero e HIV. Allegoria di un mondo moderno e distrutto, o più semplicemente spaccato drammatico e straziante di esistenze ormai spacciate, Kids è diventato un cult per tutti gli amanti del cinema in generale, sia per il suo stile narrativo realistico, essenziale, quasi documentaristico (una sorta di Ken Loach americanizzato) che per la sua regia attenta ed estremamente curata. Sì, perché Kids è un film indie ma mai improvvisato, in cui tutto è misurato al millimetro: le inquadrature, la musica, i suoni, i dialoghi – anche quando non ci sono.
Una storia semplice, raccontata attraverso gli occhi dei protagonisti, eppure tragicamente dolorosa e possibile, in una realtà degradata e in balia delle onde com’era la gioventù “di strada” della New York anni Novanta. In un’intervista al Guardian di qualche anno fa, Korine ha descritto Kids come il racconto di “una gioventù selvaggia, che viveva sui tetti e in cui nessuno aveva una vera casa e in fondo neppure gli importava. È così nel film ed era esattamente così nella realtà. Era pura, vera cultura di strada. Era LA strada. Era tutto sul vivere per strada, senza mai tornare a casa”.
Gli anni passano, è vero, e non è mica detto che le cose cambino. Forse si edulcorano, paradossalmente, perché è vero quello che dice Korine, “Oggi un film come Kids sarebbe impossibile”, ma qualcosa in quella sottocultura rimane ed è ancora importante raccontarla. Per farlo, però, serve una voce altrettanto “sporca”, che sappia raccontare storie in un modo crudo, essenziale, reale. Una regista come Crystal Moselle, che dopo aver diretto il bellissimo documentario The Wolfpack decide di musirarsi con un feature film di stampo documentaristico, che parla di cultura street, skateboards e gioventù “bruciate”. Una sorta di Kids – 20 anni dopo. Skate Kitchen è la storia di un collettivo di skater americane, una crew tutta al femminile di giovani donne forti e indipendenti che vivono per strada, a cavalcioni su una rampa, ed hanno un’unica grande passione: lo skateboard. Una passione così grande che neanche un infortunio può fermarla, a costo anche di andare contro le persone che ami.
Le Skate Kitchen esistono davvero e sono le stesse protagoniste del film: per raccontare la sua storia, Crystal Moselle decide che è meglio far parlare loro: il fatto che le protagoniste del film non siano attrici protagoniste, in verità, è un valore aggiunto, perché regala alla pellicola quell’aspetto documentaristico di cui ha bisogno, di cui noi spettatori abbiamo bisogno, per poterci immedesimare fino in fondo nelle loro vite e nel loro mondo, anche se quel mondo non ci appartiene. Così come in Kids, anche in Skate Kitchen i personaggi si aggirano maldestramente in una città troppo grande e difficile per essere accogliente, una città in cui droga, promuscuità e pericoli sono all’ordine del giorno e in cui, oggi come allora, valgono fortemente le parole di Korine. Perché la shadow culture ritratta nel film di Larry Clarke esiste ancora oggi, seppur con problematiche differenti – e forse meno “pericolose” – perché chi vive per la strada ha l’urgenza di non tornare mai a casa. Forse perché una casa non ce l’ha davvero.
Consapevolmente o inconsapevolmente, Skate Kitchen è una rappresentazione moderna di Kids ma ne è anche la sua evoluzione. I problemi cambiano, così come cambiano gli adolescenti (cambia la loro cultura, la loro educazione, i loro interessi), ma quello che resta sullo sfondo rimane immutato: la strada accoglie e distrugge con la stessa “violenza” e spesso non spetta a noi decidere cosa è giusto o sbagliato. Semplicemente perché non ne abbiamo la forza – o forse perché non abbiamo altra scelta.
UPDATE: se siete a Milano, il Cinemino ha organizzato una proiezione di Skate Kitchen, il 17 Luglio alle 21:20. Trovate l’evento Facebook qui!