Midsommar: apologia del dolore e della purificazione
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Ari Aster è un regista incredibile. 33 anni, una serie di corti alle spalle e due lungometraggi all’attivo, uno più bello, intenso e potente dell’altro. E poi c’è una cosa di lui che mi fa letteralmente impazzire ed è il modo in cui affronta il cinema di genere, con un’eleganza e una introspezione pari solo a Roman Polanski. Ed erano anni, infatti, che non si vedeva un cinema così. E poi ci sono le sette, tanto care a lui – e a me, che ve lo dico a fare – che inserisce nei suoi film in un modo così naturale e controllato da lasciarti sospeso, in bilico tra realtà e delirio, per tutto il tempo. Ci riesce bene con Hereditary, nonostante la confusione del finale, ma con Midsommar raggiunge una vetta tale che è difficile tenere il passo (e getta inevitabilmente su di lui una certa aspettativa per i suoi prossimi film).
Parlare di sette e comunità circoscritte è molto affascinante, perché ti trasporta in una dimensione sospesa, chiaramente distante dalla realtà, in cui il limite tra ciò che è socialmente accettato e ciò che è umanamente inconcepibile è sottile, sottilissimo, e si può rompere da un momento all’altro. Affascinante, sì, ma anche tanto rischioso, perché a sforare nella retorica spicciola e nella demonizzazione ci si mette davvero un secondo. A meno che non sei Polanski – o Ari Aster, appunto.
Midsommar è molto più di un film horror, anzi, sapete una cosa? Smettiamola di chiuderci in un genere, perché se c’è una cosa che il grande cinema indie americano ci ha insegnato è che per fare cinema non servono etichette ma un grande talento, due palle grosse così e una bella storia da raccontare (e magari A24 a distribuirti, come in questo caso).
Partendo da un dramma personale (così straziante da favorire da subito empatia e immedesimazione – merito anche della protagonista, attrice immensa e intensa come il suo dolore), Ari Aster ci guida piano piano, passo dopo passo, in quello che è forse una delle esperienze visive, sonore e musicali più forti degli ultimi anni, una specie di raduno hippie in mezzo al nulla dove il paganesimo danza con la disperazione e diventa catarsi, purificazione, pace eterna. E qui il parallelismo con Rosemary’s Baby è inevitabile, perché anche in Midsommar quella danza si svolge su di un filo così sottile che basta un attimo per cadere giù. Ma dov’è che si cade: nella realtà razionale e unidirezionale in cui niente di tutto questo è accettabile o dal lato opposto, quello in cui tutto è ammesso e (non) concesso e il fine giustifica i mezzi, sempre, perché così è il paganesimo, così è la religione cieca? Non si sa, perché in fondo non si cade mai e tu rimani lì, sospeso disperatamente a quel filo, a chiederti se quello che vedi è giusto, reale, possibile o solo frutto della tua immaginazione, del tuo personale delirio, di una specie di desiderio recondito di redenzione e pace, eterna anche lei.
E come la protagonista si avvicina al culto per espiare e trasformare il suo dolore, così noi ci avviciniamo al film, silenziosi e addolorati, nella speranza di salvarci anche noi. Ma noi siamo spacciati, la pace eterna non ce la meritiamo.